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Sogni inqiueti, paure e visioni nell’arte di Kikko Giannuzzi

di Terry Marocco*

Sogni inqiueti, paure e visioni nell'arte di Kikko Giannuzzi

L’arte ha sempre oscillato tra normalità e follia. Borderline, confine sottile, impalpabile, terra di frontiera che lambisce i capolavori dei grandi. Così lo sguardo cerchiato di verde e gli occhi persi degli autoritratti di Vincent van Gogh o gli incubi notturni popolati di mostri, pipistrelli e creature evanescenti di Francisco Goya. Borderline, il genio bruciato troppo in fretta di Jean Michel Basquiat e il genio sublime di Francis Bacon, con i suoi papi urlanti, dalle bocche spalancate, fameliche, annegate nel colore. Bacon scriveva: «Ho sempre sognato di dipingere il sorriso, ma non ci sono mai riuscito». Le sue figure deformate provano angoscia e solitudine, corpi spezzati, irriconoscibili. Per andare  a fondo del dolore c’è bisogno di astrazione. E così il tornare a un’arte che ricorda i disegni infantili è un viaggio all’indietro al proprio inizio, alle radici della sofferenza.

Nei lavori di Kikko Giannuzzi questo percorso diventa evidente, e nel suo tratto sottile, elegante c’è un ritorno a un disegno infantile, che ricorda gli incubi dei bambini. Si sente la lezione dei grandi, reinterpretata con una semplicità che diventa inquietudine. Oscilla tra un’ansia sottile e la rappresentazione di una normalità per nulla rassicurante: come la casa annegata in un cielo blu China. Blu è anche il diavolo, rappresentato come un oscuro uccello o forse come uno dei Gormiti. Blu è l’abito di “Papa Razzinger”, quasi impiccato nelle sue vesti imponenti. Il colore blu diventa filo conduttore della mostra, blu ancora è l’autostrada del sole e nel blu si spegne il fuoco. Il poetico “Io e te” raffigura un dialogo tra figure che non si toccano, ma sono molto vicine, e quasi sorridenti. Una figura rossa in “Senza Titolo” appare come una creatura marina, ma di un mare affatto tranquillo.

Giannuzzi non cerca di rassicurarci, nei suoi disegni traccia i nostri sogni inquieti, le paure che galleggiano dentro l’anima. E che spesso restano lì, stagnanti, come le angosce e i piccoli uomini neri disegnati da Carlo Zinelli, campione dell’Art Brut, l’arte grezza, l’arte nata nei manicomi. Jean Dubuffet è il primo nel 1948 a dare dignità  a questi artisti dimenticati, oggi valutati come uno degli esempi più alti e interessanti, che maggiormente hanno influenzato gran parte dell’arte ufficiale, da Paul Klee a Max Ernst. Nelle opere di Giannuzzi si percepisce la stessa forza, la stessa capacità di essere visionari: nella regina denudata che si ispira alle donne di Picasso, come in Furio, così immobile che pare bloccato da una camicia di forza. Fragili e ipnotici sono i suoi disegni a penna, che ricordano labirinti, dai quali non si riesce ad uscire.

A guardarli ci si perde, ritrovandoci prigionieri delle nostre paure. Illusi, perduti come in quel vecchio videogioco, Pac Man, dove creaturine si rincorrono per divorarsi. O come nella celebre scena di Shining di Stanley Kubrick, dove il labirinto che tiene prigionieri la donna e il bambino è la stessa proiezione mentale della pazzia di Jack Torrance-Nicholson. L’arte di Giannuzzi ci colpisce per coraggio e forza, dolore e alienazione, uniti a una semplicità disarmante. E ci racconta le nostre stesse paure. Ci mette davanti a uno specchio doloroso. Guardarci attraverso, può terrorizzare.